Fo(u)r, 2015 

Max Mon­no: chi­tar­re, arran­gia­men­ti
Fran­ce­sca Leo­ne: voce
Fabri­zio Bos­so: trom­ba e fli­cor­no
Pip­po Lom­bar­do
: pia­no e tastie­re[
Mar­co Giu­lia­ni: voce e cori
Gian­lu­ca Frac­cal­vie­ri: bas­so elet­tri­co
Fabio del­le Foglie:
bat­te­ria
Fran­ce­sco Loman­gi­no
: flau­to
Enzo Fal­co: per­cus­sio­ni

Upa Negui­n­ho (Lobo, Guar­nie­ri)
Casa For­te (Lobo)
Cin­na­mon and Clo­ve (Man­del, Bergman)
O Pato (Sil­va, Teixeira)
Gen­te (Val­le, Gilbert)
Ho-Ba-La-La (Gil­ber­to)
Roda (Gil)
One Note Sam­ba (Jobim)
Groo­vy Sam­ba (Men­des)
It’s Fever (Mon­no)
The Fool on the Hill (Len­non, McCartney)
Going Out of my Head (Ran­daz­zo, Weinstein)
Lapi­n­ha (Pin­hei­ro, Powell)
Berim­bau (Powell, de Moraes)
Mas Que Nada (Ben)


Ascol­ta­lo!

Note di Coper­ti­na
al disco scrit­te da
SERGIO MENDES!

Fir­st of all, I must say I was very tou­ched with the tri­bu­te to my “Bra­sil 66” years, wich is a part of my work that I am very proud of. Max was able to put in his ver­sion of tho­se songs a very nice, per­so­nal touch whi­le kee­ping the spi­rit of the ori­gi­nal work ali­ve. I hope eve­ryo­ne will enjoy this love­ly CD as much as I did. Thank you Max!

Innan­zi­tut­to ammet­to di esse­re sta­to toc­ca­to da que­sto tri­bu­to agli anni di Bra­sil 66, una par­te del mio lavo­ro di cui sono mol­to orgo­glio­so. Max è sta­to capa­ce di lascia­re nel­le sue ver­sio­ni di quel­le can­zo­ni un toc­co bel­lis­si­mo e per­so­na­le, rispet­tan­do lo spi­ri­to ori­gi­na­le del mio lavo­ro. Spe­ro che tut­ti pos­sa­no apprez­za­re que­sto bel CD come ho fat­to io.

Gra­zie Max! 

SERGIO MENDES

Recen­sio­ni

«Bra­sil 2015» è il nuo­vo disco di Max Mon­no (Fo(u)r Edi­tion), dedi­ca­to a Ser­gio Men­des.
Ne par­lia­mo con lui.


Max, tan­ta pas­sio­ne e un’evocazione filo­lo­gi­ca, anche nel­la coper­ti­na, di «Herp Albert pre­sen­ts Ser­gio Men­des & Bra­sil ‘66». Come nasce que­sta idea?

I miei lavo­ri disco­gra­fi­ci nasco­no poste­rio­ri ai live. In gene­re non pen­so di rea­liz­za­re un cd, ma pen­so di fare dei con­cer­ti: ave­vo quin­di pre­pa­ra­to una serie di arran­gia­men­ti da por­ta­re in giro, e quan­do que­sta cosa ha pre­so una for­ma che mi pia­ce­va, è nata, suc­ces­si­va­men­te, l’idea di «fer­mar­la in una foto­gra­fia». Quan­do pre­pa­ri un pro­get­to cer­chi un’idea, un comun deno­mi­na­to­re per­ché il con­cer­to non sia una pre­sen­ta­zio­ne ano­ni­ma di bra­ni più o meno cono­sciu­ti, e il Bra­si­le di Ser­gio Men­des mi era sem­bra­ta una buo­na idea, coin­vol­gen­te pri­ma di tut­to per me che ave­vo cono­sciu­to la musi­ca bra­si­lia­na non dai suoi auto­ri col­ti, Jobim, Elis Regi­na, João Gil­ber­to, Vini­cius de Moraes, Baden Powell, ma da un nastro C90 su cui era regi­stra­to Men­des con i suoi Bra­sil ’66.

Ad ecce­zio­ne di Groo­vy Sam­ba, i bra­ni in sca­let­ta non sono fir­ma­ti da Ser­gio Men­des, ma sono can­zo­ni che fan­no par­te del­la sto­ria del­la musi­ca popo­la­re bra­si­lia­na. Qual è il valo­re aggiun­to di Mendes?

Non so se ci sia un valo­re aggiun­to. Da quel­lo che so mol­ti suoi con­ter­ra­nei lo accu­sa­no anzi di ave­re com­mer­cia­liz­za­to una musi­ca che era frut­to di un movi­men­to intel­let­tua­le fat­to da intel­let­tua­li, poe­ti, uomi­ni di cul­tu­ra. Del resto è faci­le tra­scen­de­re e pas­sa­re da Pais Tro­pi­cal al tre­ni­no di capo­dan­no! Ma pro­prio que­sto aspet­to for­se, a ben pen­sar­ci, può esse­re il valo­re aggiun­to che cer­chia­mo. La musi­ca bra­si­lia­na deve a Ser­gio Men­des la sua dif­fu­sio­ne nel mon­do anche non intel­let­tua­le. Le radi­ci del­la bos­sa nova sono popo­la­ri, il sam­ba è popo­la­re, lo cho­ro è popo­la­re: Men­des resti­tui­sce la bos­sa nova al popo­lo, e al popo­lo con­se­gna per sem­pre le bel­lis­si­me can­zo­ni di quel­la cer­chia di intel­let­tua­li che ave­va­no dato il via a tut­to. Cer­to il rischio, die­tro l’angolo, è quel­lo di esa­ge­ra­re, e di bana­liz­za­re tut­to tra­sfor­man­do la bos­sa nova in un sem­pli­ce rit­mo inve­ce che in una vera cul­tu­ra, e fare musi­chet­ta da ascen­so­re o da festic­cio­la. Con­fes­so comun­que che nel mio ascen­so­re pre­fe­ri­rei sem­pre e comun­que ascol­ta­re un bra­no dei Bea­tles riar­ran­gia­to da Men­des che del­la musi­ca house!

Hai rice­vu­to anche il pla­cet pub­bli­co di Ser­gio Mendes.

Non sono una per­so­na vana­glo­rio­sa né par­ti­co­lar­men­te arri­vi­sta (lo dico nel sen­so buo­no di una per­so­na che vuo­le arri­va­re, cosa che in sé non è nega­ti­va), per cui non ho cer­ca­to da subi­to il con­tat­to con Men­des, tant’è che quan­do si è con­cre­tiz­za­ta que­sta pos­si­bi­li­tà ho cor­so il rischio di non riu­sci­re a stam­pa­re il cd in tem­po per rice­ve­re le sue paro­le da scri­ve­re in coper­ti­na. Poi però mi sono det­to: per­ché non far­gli ascol­ta­re un lavo­ro a lui dedi­ca­to e ispi­ra­to? Ecco la ricer­ca – non faci­le – del con­tat­to. Appro­fit­to per rin­gra­zia­re il suo pro­dut­to­re alla Okeh Records, Wulf Mul­ler, per­so­na gen­ti­lis­si­ma e dispo­ni­bi­lis­si­ma, che si è inter­fac­cia­ta con me con una sem­pli­ci­tà a me incom­pren­si­bi­le, abi­tua­to come sono alle man­ca­te rispo­ste degli inter­lo­cu­to­ri disco­gra­fi­ci di casa nostra. Ho avu­to – con­fes­so – un po’ pau­ra a far­glie­lo ascol­ta­re, ma ho pen­sa­to che fos­se un atto dovu­to. Mi dice­vo: «Ades­so mi rispon­de dicen­do­mi: come ti per­met­ti?». Entra­re in una cul­tu­ra che non è tua è sem­pre dif­fi­ci­le e peri­co­lo­so, ma sco­pri­re di esse­re riu­sci­to per lo meno a non fare inor­ri­di­re chi in quel­la cul­tu­ra è a pie­no tito­lo tra i più gran­di espo­nen­ti, mi ha di fat­to reso felice.

Secon­do qua­le cri­te­rio hai scel­to i bra­ni in scaletta?

L’affetto per­so­na­le e un po’ di «occhio cli­ni­co» da ascol­ta­to­re. Ho pun­ta­to la mia atten­zio­ne sul­la pri­ma par­te del­la sua car­rie­ra, quel­la che par­te come jaz­zi­sta negli anni bra­si­lia­ni e arri­va poi in Nord Ame­ri­ca con i Bra­sil ‘66. Ci sono dei clas­si­ci che non pos­so­no man­ca­re, altri meno cono­sciu­ti che meri­ta­va­no di esse­re recu­pe­ra­ti; un riar­ran­gia­men­to di un bra­no dei Bea­tles che rap­pre­sen­ta una del­le fac­ce di Men­des di que­gli anni; qual­che bra­no stru­men­ta­le per omag­gia­re il perio­do bra­si­lia­no che lo vide inci­de­re un bel­lis­si­mo lp con Can­non­ball Adder­ley; e in ulti­mo un mio ine­di­to, scrit­to con rive­ren­za, dato l’accostamento con cotan­ti capo­la­vo­ri, con l’idea di ripro­por­re il sound di que­gli anni.

Qual è sta­to l’aspetto più dif­fi­ci­le di que­sto disco?

Direi tene­re in equi­li­brio l’omaggio (Men­des è un inter­pre­te, quin­di l’omaggio non pote­va non pas­sa­re attra­ver­so la ripro­po­si­zio­ni di alcu­ni aspet­ti tipi­ci dei suoi arran­gia­men­ti, del modo in cui gli stru­men­ti suo­na­no, come ad esem­pio cer­ti fill o cer­ti stop di bat­te­ria, o cer­te armo­niz­za­zio­ni voca­li) e il toc­co per­so­na­le da musi­ci­sta rive­ren­te ma non ser­vi­le. Il rischio, in epo­ca di cover band, era for­te e mi ha fat­to tre­ma­re, ma spe­ro di esse­re riu­sci­to nell’intento.

In un momen­to in cui buo­na par­te dei jaz­zi­sti cer­ca di «anda­re avan­ti», tu fai un pas­so indie­tro e suo­ni la bos­sa nova. Ti va di anda­re con­tro­cor­ren­te o c’è dell’altro?

Ci sono due aspet­ti da con­si­de­ra­re. Il pri­mo è mol­to per­so­na­le: non so se sono un jaz­zi­sta in sen­so stret­to! Il mio per­cor­so musi­ca­le è mol­to varie­ga­to, e mol­te sono le com­po­nen­ti che sen­to atti­ve den­tro di me. Per cui non sono mol­to “bra­vo” a sape­re cosa un «bra­vo jaz­zi­sta» dovreb­be fare o non fare. Come dice­vo pri­ma, io sco­pro cose e quel­le cose mi entu­sia­sma­no, le inte­gro in me, diven­ta natu­ra­le per me sen­tir­le e ave­re voglia di espri­mer­le. Maga­ri mi vie­ne anco­ra natu­ra­le, una sera qua­lun­que, pren­de­re la mia Fen­der Stra­to­ca­ster e suo­na­re un rock’n’roll di Chuck Ber­ry. Lo so che que­sto non è ben visto in que­sto perio­do, in que­sto momen­to in cui il jazz è aggre­di­to da più par­ti nei suoi spa­zi vita­li. Ma que­sto sono io, un mel­ting pot di sen­to­ri e con­ta­mi­na­zio­ni. Però, men­tre da un lato non so se sono jaz­zi­sta puro, so che mi sen­to tale appie­no, anche nel sen­so del­la liber­tà musi­ca­le: liber­tà anche di anda­re in una dire­zio­ne a pre­scin­de­re dal­le mode del momen­to. Ecco quin­di, con­se­guen­te, il secon­do aspet­to: cre­do poco nel­le dire­zio­ni musi­ca­li pre­se per scel­ta pre­ven­ti­va, nel­le «cor­ren­ti» giu­ste e nel­le con­tro­cor­ren­ti. Non pen­so che la con­ca­te­na­zio­ne giu­sta sia pia­ni­fi­ca­zio­ne del­la dire­zio­ne – stra­te­gia – musi­ca. Per me un musi­ci­sta sin­ce­ro suo­na e va in una dire­zio­ne per una urgen­za, maga­ri anche con­di­zio­na­ta dagli even­ti socia­li, ma trat­ta­si di urgen­za, voglia di suo­na­re, espri­me­re quel­lo che sen­te. Io non so se sono un jaz­zi­sta, non so se ho fat­to un buon disco, non so nem­me­no se so suo­na­re bene la chi­tar­ra, mi limi­to a fare ciò che sen­to, che mi pia­ce, che mi coinvolge.

Par­lia­mo anche dei tuoi soda­li. Ave­vi già pro­gram­ma­to que­sto grup­po, oppu­re qual­cu­no è sali­to sul car­ro stra­da facendo?

Fran­ce­sca Leo­ne alla voce e Pip­po Lom­bar­do al pia­no, sono i due rap­pre­sen­tan­ti secon­do me più auto­re­vo­li del­la bos­sa nova dal­le nostre par­ti; Mar­co Giu­lia­ni alla voce, sup­por­to voca­le maschi­le; Gian­lu­ca Frac­cal­vie­ri e Fabio del­le Foglie, sezio­ne rit­mi­ca pre­ci­sa e affi­da­bi­le, affia­ta­ta: que­sti era­no i com­po­nen­ti del live. Ho aggiun­to Enzo Fal­co alle per­cus­sio­ni e il flau­to di Fran­ce­sco Loman­gi­no. Poi, l’idea di coin­vol­ge­re lo splen­di­do e gene­ro­so Fabri­zio Bos­so, che mi ha rega­la­to la sua par­te­ci­pa­zio­ne, impre­zio­sen­do tre bra­ni con la sua pre­sen­za ele­gan­te e stra­ri­pan­te. Dicia­mo che più che sali­re sul car­ro, è sta­to affer­ra­to per il bave­ro in corsa!

Tu non sei un musi­ci­sta fre­ne­ti­ca­men­te pro­li­fi­co: «Bra­sil 2015» è il tuo secon­do disco da lea­der e arri­va a distan­za di cin­que anni da «Tre­ni a vapo­re». E’ una scel­ta o una causalità?

Fare un disco deve esse­re un pun­to d’arrivo; da que­sto pun­to di vista cre­do che biso­gna far­lo quan­do hai qual­co­sa da dire. Ci sono per­so­ne che par­la­no di più e altre che par­la­no di meno: l’importante è dire cose sin­ce­re! Sono len­to, lo ammet­to. Ma noi musi­ci­sti non fac­cia­mo solo i musi­ci­sti: dob­bia­mo esse­re inse­gnan­ti, gra­fi­ci, mana­ger, impren­di­to­ri, e il tem­po è poco per uno che deve fare da solo tut­ti que­sti mestie­ri! Inol­tre oggi rea­liz­za­re un disco è un’operazione dispen­dio­sa che è tut­ta sul­le spal­le dell’artista (que­sto il pub­bli­co non lo sa, ma le eti­chet­te disco­gra­fi­che non pro­du­co­no più eco­no­mi­ca­men­te nes­su­no se non pochi gros­si nomi, e anche a ragio­ne, visto che i dischi non si ven­do­no): da que­sto pun­to di vista tro­va­re le ener­gie finan­zia­re per rea­liz­za­re le regi­stra­zio­ni non è sem­pre faci­le. Del resto anche il mer­ca­to dei live è sem­pre più esi­guo, e chi pro­du­ce un disco – spes­so – non rie­sce a resti­tui­re l’impegno e la par­te­ci­pa­zio­ne ai pro­pri musi­ci­sti in ter­mi­ni di concerti.

Ora, biso­gne­rà far ascol­ta­re il pro­get­to in giro. Qua­li sono le stra­te­gie che ti sei pre­fis­so in proposito?

Que­sta è la doman­da più dif­fi­ci­le e sono impre­pa­ra­to. Se fos­si uno che sa cosa fare, for­se sarei già in pro­gram­ma­zio­ne in qual­che ras­se­gna. Inve­ce la veri­tà è che non sono bra­vo come impren­di­to­re, le stra­te­gie com­mer­cia­li non sono per me, sono abba­stan­za inge­nuo e non ho anco­ra capi­to bene che stra­de segui­re. Pro­muo­ve­re il mio lavo­ro com­mer­cial­men­te pro­prio non lo so fare. Lo so che non è bel­lo quel­lo che dico, ma è la veri­tà. Sareb­be splen­di­do se in que­sto set­to­re nasces­se la figu­ra mana­ge­ria­le dell’agente di spet­ta­co­lo per pic­co­li e medi arti­sti, una figu­ra impren­di­to­ria­le com­pe­ten­te con cui completarsi.

Max, chi ti ha con­dot­to ver­so la via del­la musi­ca e, in par­ti­co­la­re, del jazz?

La musi­ca ha fat­to sem­pre par­te del­la mia vita da quan­do mio padre deci­se di rega­lar­si quel­la chi­tar­ra che da ragaz­zi­no ave­va sem­pre sogna­to e mai avu­to: ave­vo dodi­ci anni e la pre­si io, impa­ran­do a suo­nar­la da auto­di­dat­ta, con la musi­ca del­la radio, attra­ver­so le can­zo­ni di que­gli anni. Al jazz sono arri­va­to inve­ce da adul­to, gra­zie a Gui­do Di Leo­ne, chi­tar­ri­sta jazz di spic­co del­la nostra ter­ra ed esper­to didat­ta: in qual­che modo, di quel­lo che ho fat­to, nel bene e nel male, è respon­sa­bi­le anche lui. Sia­mo coe­ta­nei, ma a me pia­ce chia­mar­lo Mae­stro, tut­ti dob­bia­mo ave­re un mae­stro! A pen­sar­ci bene, quel famo­so nastro C90 con le regi­stra­zio­ni di Men­des era suo: il cer­chio si chiude!

Chi è il tuo musi­ci­sta di riferimento?

E come potrei dir­te­lo, se sono così igno­ran­te che ogni gior­no ne sco­pro uno? Pos­so dir­ti che Bar­ney Kes­sel è per me un faro nel mon­do del­la chi­tar­ra. Spes­so si par­la di Char­lie Chri­stian, Djan­go Rei­n­hardt, Wes Mont­go­me­ry, Geor­ge Ben­son, Pat Methe­ny e sono dei gran­di: ma io sen­to mol­to vici­no a me que­sto fan­ta­sti­co uomo che vede­va la chi­tar­ra come una pic­co­la orche­stra, con i suoi soli pie­ni di accor­di, di linee incre­di­bil­men­te melo­di­che: un chi­tar­ri­sta che in trio sem­bra abbia l’accompagnamento di un pianoforte.

Una per­so­na che ha influen­za­to, posi­ti­va­men­te o nega­ti­va­men­te, la tua vita musicale.

Ci sono sta­te tan­te per­so­ne, tan­ti incon­tri. Tan­ti avrei volu­ti far­ne. Ma l’ascolto di I’ve Gro­wn Accu­sto­med To Her Face suo­na­ta da Wes Mont­go­me­ry nel disco «Full Hou­se», quan­do ave­vo sedi­ci anni, lo con­si­de­ro un segna­le del mio futu­ro amo­re per il jazz. Rima­si fol­go­ra­to e stu­diai quell’armonizzazione a orec­chio, anche se poi mi sepa­rai nuo­va­men­te dal jazz per mol­ti anni anco­ra. Fac­cio fin­ta che quel gior­no io abbia incon­tra­to Wes. Poi, ho già cita­to Gui­do Di Leo­ne. Un’altra per­so­na impor­tan­te, che voglio rin­gra­zia­re, è Mas­si­mo Man­zi: ho rea­liz­za­to il mio pri­mo disco soli­sta per­ché lui mi ha pro­vo­ca­to a far­lo, coin­vol­gen­do per me anche Mas­si­mo Mori­co­ni: sen­za le sue pro­vo­ca­zio­ni for­se sarei rima­sto fer­mo a casa mia.

Qua­li sono i tuoi pros­si­mi impe­gni e progetti?

Vedre­mo nei pros­si­mi cin­que anni cosa suc­ce­de­rà! Ci sono cose che si muo­vo­no, come una rilet­tu­ra del song­book di Tom Wai­ts, o come un quar­tet­to jazz con pia­no­for­te con il qua­le final­men­te pos­so suo­na­re solo stru­men­ta­li in un per­cor­so idea­le che mi sta por­tan­do, attra­ver­so gli anni, a pas­sa­re dal­la for­ma can­zo­ne al jazz stru­men­ta­le: que­sto potreb­be esse­re il mio pros­si­mo lavo­ro, in aria di West Coa­st. Ma come ho det­to, fare un disco è un’operazione dif­fi­ci­le e pre­zio­sa, da rea­liz­za­re con cal­ma. Per que­sto per il momen­to, men­tre fac­cio cre­sce­re in que­sto quar­tet­to que­sto nuo­vo aspet­to del­la mia musi­ca­li­tà (che devo dire mi sta già dan­do gran­di sod­di­sfa­zio­ni) ‚vor­rei dedi­car­mi a por­ta­re un po’ in giro, se pos­so, il mio «Bra­sil 2015».

Alce­ste Ayrol­di (per “Musi­ca Jazz”).

Gui­ta­ri­st Max Mon­no pays tri­bu­te to the Ser­gio Men­des sound of the 60s – in case you couldn’t guess from the title and cover!

Yet the music here isn’t just a rehash of Bra­sil 66 – and instead sho­w­ca­ses on all the great sty­les that Men­des allo­wed with his expe­ri­men­ts at the time – that free­ing of bos­sa rhy­thms from their sim­pler con­strain­ts, the way that the voi­ce was real­ly unloc­ked in Bra­zi­lian music – to a mode that would later influen­ce so many other glo­bal sin­gers – and even the rewor­king of jazz instru­men­ta­tion throu­gh strong inter­play bet­ween rhy­thm and melody.

The group fea­tu­res won­der­ful lead vocals from Fran­ce­sca Leo­ne – a sin­ger who would real­ly make Ser­gio proud – and instru­men­ta­tion inclu­des gue­st trum­pet from Fabri­zio Bos­so, plus flu­te, pia­no, gui­tar, and lots of percussion.

Titles inclu­de “Upa Negui­n­ho”, “Casa For­te”, “Mas Que Nada”, “Lapi­n­ha”, “Going Out Of My Head”, “Groo­vy Sam­ba”, “Roda”, “O Pato”, “Gen­te”, and “Ho Ba La La”.

A distan­za di cin­que anni dal suo pri­mo album, Tre­ni a Vapo­re, il chi­tar­ri­sta bare­se Max Mon­no tor­na con un nuo­vo lavo­ro, Bra­sil 2015, il cui nome rive­la­to­re fa rife­ri­men­to ai clas­si­ci del­la bos­sa nova che Sér­gio Men­des ha con­tri­bui­to a ren­de­re immor­ta­li. Già nel suo pri­mo pro­get­to, nel qua­le si rivi­si­ta­va­no in chia­ve jazz alcu­ni bra­ni di musi­ca pop ita­lia­na, il chi­tar­ri­sta si segna­la­va per gusto, sen­si­bi­li­tà e cura dedi­ca­ta agli arran­gia­men­ti. Que­sta vol­ta, Mon­no pro­po­ne una rac­col­ta di bra­ni trat­ti dal clas­si­co reper­to­rio di bos­sa nova, ai qua­li ne affian­ca uno ori­gi­na­le di sua composizione.

A distan­za di decen­ni da quell’epoca d’oro, si rima­ne sor­pre­si di quan­to il gene­re sia rima­sto attua­le, e di quan­to Mon­no sia riu­sci­to a cat­tu­rar­ne inte­gro lo spi­ri­to. I pre­gi che ave­va­no carat­te­riz­za­to Tre­ni a Vapo­re con­ti­nua­no poi a vive­re in Bra­sil 2015, e anco­ra una vol­ta è subi­to evi­den­te la gran­de atten­zio­ne pre­sta­ta agli arran­gia­men­ti, ma soprat­tut­to il gran­de fee­ling che Mon­no è riu­sci­to a infon­de­re. Il toc­co e il gusto per­so­na­le del chi­tar­ri­sta bare­se pos­so­no esse­re per­ce­pi­ti per tut­to il lavo­ro, che sor­pren­de per il coin­vol­gi­men­to e il tra­spor­to che è in gra­do di comu­ni­ca­re all’ascoltatore. In que­sto viag­gio musi­ca­le dal tipi­co sapo­re tro­pi­ca­le, lo accom­pa­gna­no alcu­ni inter­pre­ti di gran­de spes­so­re che han­no dedi­ca­to al gene­re una par­te rile­van­te del­la pro­pria carriera.

Fran­ce­sca Leo­ne è cer­to una voce idea­le per un’occasione come que­sta: non a caso è da poco usci­ta con Que­ri­da (altro pre­ge­vo­lis­si­mo lavo­ro di bos­sa nova, sem­pre per Fo(u)r). La can­tan­te rie­sce ovun­que con natu­ra­lez­za, e a secon­da di quan­to richie­sto dal bra­no, a colo­ra­re le note di brio oppu­re di una lie­ve malin­co­nia. Ad affian­car­la c’è il tim­bro cal­mo e deci­so di Mar­co Giu­lia­ni, men­tre al pia­no e alle tastie­re tro­via­mo il toc­co deli­ca­to e sognan­te di Pip­po Lom­bar­do. A com­ple­ta­re il qua­dro, il flau­to del bril­lan­te Fran­ce­sco Lomangino.

La roda­tis­si­ma sezio­ne rit­mi­ca è com­po­sta da Gian­lu­ca Frac­cal­vie­ri al bas­so semia­cu­sti­co e da Fabio del­le Foglie alla bat­te­ria; a loro si aggiun­ge il per­cus­sio­ni­sta Enzo Fal­co. L’obiettivo di garan­ti­re groo­ve e rit­mo è cer­to rag­giun­to anche a que­ste latitudini.

Ad impre­zio­si­re ulte­rior­men­te que­sto lavo­ro di incre­di­bi­le soli­di­tà e tra­spor­to è la pre­sen­za di Fabri­zio Bos­so, uno dei più gran­di trom­bet­ti­sti ita­lia­ni, la cui sola pre­sen­za var­reb­be a moti­va­re l’ascoltatore. Si rima­ne stu­pi­ti da una raf­fi­ca di note o si vie­ne tra­sci­na­ti via dal­le altre.

Il reper­to­rio pre­sen­ta­to in Bra­sil 2015 trae ispi­ra­zio­ne da quel­lo di album di gran­de suc­ces­so come Herb Alpert Pre­sen­ts Ser­gio Men­des & Bra­sil ’66 e Fool on the Hill: tut­ti e due por­ta­no la fir­ma di Sér­gio Men­des con la for­ma­zio­ne dei Bra­sil ’66, e furo­no pro­dot­ti nel­la secon­da metà degli anni ses­san­ta. Nel lavo­ro di Max Mon­no ritro­via­mo per­ciò pez­zi che qua­lun­que aman­te del gene­re potrà facil­men­te rico­no­sce­re, e che por­ta­no la fir­ma di Viní­cius de Moraes, João Gil­ber­to, Anto­nio Car­los Jobim, Edu Lobo, Baden Powell e del­lo stes­so Mendes.

A que­sti si aggiun­go­no altre due cover: la pri­ma è The Fool on the Hill, bra­no mol­to poe­ti­co dei Bea­tles, pre­sen­ta­to anche in ver­sio­ne bos­sa da Sér­gio Men­des nel 1968, con Gra­ci­n­ha Lepo­ra­ce alla voce. Vi è poi la cele­bre Going out of my head, nota soprat­tut­to nel­la ver­sio­ne ori­gi­na­le di Lit­tle Antho­ny & the Impe­rials del 1964, e pro­po­sta due anni dopo in ver­sio­ne bos­sa dal­lo stes­so Mendes.

Pare giu­sto spen­de­re due paro­le per It’s Fever, la com­po­si­zio­ne ori­gi­na­le fir­ma­ta da Max Mon­no: in aper­tu­ra la sua chi­tar­ra dia­lo­ga con la trom­ba di Fabri­zio Bos­so, per intro­dur­re subi­to dopo la voce di Fran­ce­sca Leo­ne e quin­di quel­la di Mar­co Giu­lia­ni. Il bra­no cat­tu­ra appie­no l’atmosfera cal­da e malin­co­ni­ca che spes­so carat­te­riz­za il genere.

In con­clu­sio­ne, Bra­sil 2015 non è cer­to una ripro­po­si­zio­ne fred­da o com­mer­cia­le di vec­chi suc­ces­si, ma una rie­la­bo­ra­zio­ne per­so­na­lis­si­ma, tra­sci­nan­te e al con­tem­po estre­ma­men­te raf­fi­na­ta, nel­la qua­le ogni musi­ci­sta pre­sen­te con­tri­bui­sce a cesel­la­re lo spa­zio sono­ro. Al di là del­la gran­de soli­di­tà di tut­to il lavo­ro, il risul­ta­to è sem­pre gra­de­vo­le e potrà pia­ce­re tan­to agli appas­sio­na­ti di bos­sa nova quan­to all’ascoltatore casua­le. L’album è infat­ti par­ti­co­lar­men­te adat­to per allie­ta­re qual­sia­si occa­sio­ne, e l’uditore maga­ri si sor­pren­de­rà a muo­ver­si, sen­za ren­der­se­ne nep­pu­re conto.

Bra­sil 2015 ha però anche un’altra ani­ma, non meno impor­tan­te: Mon­no ha difat­ti volu­to dare uno spa­zio di rilie­vo al Men­des “jaz­zi­sta”, quel­lo che pri­ma di andar via dal Bra­si­le inci­se un CD con Can­non­ball Adder­ley, e che per l’occasione com­po­se il bra­no ori­gi­na­le Groo­vy Sam­ba, qui ripro­po­sto. Vi sono bra­ni stru­men­ta­li che bilan­cia­no le can­zo­ni di bre­ve dura­ta, e offro­no all’ascoltatore del­le improv­vi­sa­zio­ni jaz­zi­sti­che di respi­ro maggiore.

La recen­sio­ne miglio­re per que­sto lavo­ro vie­ne però dal­le paro­le di Sér­gio Men­des: per lui, “Max è riu­sci­to a dare alla sua ver­sio­ne di que­sti bra­ni un toc­co mol­to bel­lo e per­so­na­le, pur man­te­nen­do vivo lo spi­ri­to del lavo­ro originale”.

Gian­lu­ca Car­del­lic­chio (per Four, press release)